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La vita si allunga. E il meglio deve ancora venire OF OSSERVATORIO FINANZIARIO

SOMMARIO

Il miglior cervello della nostra vita? È quello di mezza età. Parola di Barbara Strauch, vicecaporedattore della sezione Scienza e caporedattore della sezione Medicina e salute del New York Times, autrice del libro “I tuoi anni migliori devono ancora venire”, edito da Arnoldo Mondadori Editore nel 2011. Di seguito un estratto (pag. 28-38) selezionato dalla redazione di Of-Osservatorio finanziario

La vita si allunga. E il meglio deve ancora venire

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Il miglior cervello della nostra vita
Un po’ più lento, ma molto migliore

Ecco un breve quiz. Guardate il seguente elenco:
Gennaio febbraio marzo aprile gennaio febbraio marzo maggio gennaio febbraio marzo giugno gennaio febbraio marzo...
Qual è la parola successiva?
Afferrato il concetto? E ora che ne dite di quest’altro test?
Gennaio febbraio mercoledì marzo aprile mercoledì maggio giugno mercoledì luglio agosto mercoledì...
Qual è la parola successiva?
Ora proviamo con i numeri. Guardate questa serie:
1 4 3 2 5 4 3 6 5.
Qual è il numero successivo?
Li avete capiti tutti?

Sono alcune delle domande che servono a misurare le basilari doti logiche e di ragionamento. Le risposte sono, nell’ordine, luglio, settembre e, per la sequenza numerica, 4 (e poi 76. La serie funziona così: 1-43 2-54 3-65 4-76 e così via).
Questi test saggiano la nostra capacità di riconoscere gli schemi e sono usati di norma dagli scienziati per vedere come resistano all’usura del tempo i nostri processi cognitivi o intellettivi. E se siamo di mezz’età e li abbiamo risolti tutti, possiamo essere orgogliosi: il nostro cervello funziona benissimo.
In realtà, nonostante secolari pregiudizi contrari, sempre più prove dimostrano che nella mezz’età siamo forse più intelligenti di quanto non fossimo a vent’anni.

Come può essere? Come possiamo essere più intelligenti e nel contempo infilare le banane nella cesta della biancheria? Più intelligenti e tuttavia non riuscire, entrando dal ferramenta, a rammentare perché ci siamo andati? Più intelligenti e, nonostante tutti i nostri sforzi per concentrarci su una cosa alla volta, vedere il cervello schizzare qua e là come una palla da biliardo? Per capire come possa darsi un simile fenomeno, l’ideale è iniziare da una persona come Sherry L. Willis. Psicologa alla Pennsylvania State University, la Willis e suo marito K. Warner Schaie hanno intrapreso uno degli studi più lunghi, vasti e autorevoli sull’invecchiamento, il Seattle Longitudinal Study, che è stato avviato nel 1956 e per oltre quarant’anni ha sistematicamente saggiato l’abilità mentale di seimila persone. I partecipanti alla ricerca, scelti a caso fra gli iscritti a una grande mutua privata di Seattle, sono tutti adulti sani, di età compresa fra i venti e i novant’anni, divisi equamente fra uomini e donne e dediti alle più svariate occupazioni. Ogni sette anni, l’équipe della Penn State sottopone ai test il campione per controllarne le prestazioni.
La caratteristica importante dell’indagine è la sua longitudinalità, ovvero lo studiare le stesse persone nel corso del tempo. Per molti anni i ricercatori impegnati nel campo avevano tratto informazioni solo da studi trasversali sulla durata della vita: nel corso del tempo avevano analizzato persone diverse alla ricerca di modelli comuni. Le indagini longitudinali, che sono considerate il parametro ideale per qualsiasi analisi scientifica, sono iniziate perlopiù negli anni Cinquanta e solo adesso stanno dando informazioni concrete, e dimostrando come le nostre idee sul cervello fossero del tutto fuorviate.
I primi importanti risultati ottenuti dalla ricerca di Seattle, pubblicati qualche anno fa, hanno per esempio rivelato che, in media, nei test cognitivi il campione funzionava meglio nella mezz’età di quanto non avesse funzionato in qualsiasi altra età presa in esame.
Le capacità che la Willis e i suoi colleghi misurano comprendono il vocabolario (quante parole si riconoscono e di quante si è in grado di trovare i sinonimi), la memoria verbale (quante parole si ricordano), l’abilità aritmetica (con quanta rapidità si fanno moltiplicazioni, divisioni, sottrazioni e addizioni), l’orientamento spaziale (quanto si riesce a capire che aspetto avrebbe un oggetto se ruotasse di 180 gradi), la velocità percettiva (con quanta rapidità si preme un bottone appena si vede una freccia verde) e il ragionamento induttivo (quanto bene si risolvono problemi logici come quelli esemplificati in precedenza). Benché non perfetti, i test sono un buon indicatore del nostro grado di abilità in alcuni compiti quotidiani, come capire il modulo di un’assicurazione o organizzare un matrimonio.

---- I risultati cui sono giunti i ricercatori sono incredibili. Nel lasso di tempo che corrisponde al moderno concetto di mezz’età, ovvero, come abbiamo detto, dai quaranta ai sessantotto anni, i soggetti davano nei test sulle capacità cognitive più importanti e complesse risultati migliori di quanto non ne avessero dato fra i venti e i trent’anni. In quattro categorie su sei (vocabolario, memoria verbale, orientamento spaziale e, cosa forse più rincuorante di tutte, ragionamento induttivo), la loro prestazione era in media migliore fra i quaranta e i sessantacinque anni.

«Il livello più alto di funzionamento si è riscontrato, in quattro delle sei abilità mentali prese in considerazione, proprio nella mezz’età» dice la Willis nel suo libro Life in the Middle. «Sia negli uomini sia nelle donne, la prestazione massima ... è stata raggiunta nella mezz’età» scrive.
«Contrariamente a quanto sosteneva una visione stereotipata dell’intelligenza e alle convinzioni ingenue di molti profani colti, l’inizio dell’età adulta non è il periodo di massimo sviluppo delle funzioni cognitive, per quanto riguarda molte delle facoltà superiori. In quattro delle sei abilità studiate, gli individui di mezz’età funzionavano meglio di quanto non avessero funzionato a venticinque anni.»
Quando appresi queste notizie, mi stupii molto. Dopo avere analizzato i risultati scientifici delle ricerche sul cervello adolescente, sapevo che il cervello continua a cambiare e a evolversi fino ai venticinque anni. Molti scienziati affermavano che oltre quell’età non si progrediva più: erano convinti che il cervello subisse cambiamenti innovativi su larga scala fino ai vent’anni o poco più, e poi basta.

Anch’io credevo che, entrando nella mezz’età, la mente fosse, nella migliore delle ipotesi, saggia e tranquilla e che, se mai subiva qualche mutamento rilevante, lo subisse con ogni probabilità in peggio.
Una sera, dopo avere intervistato la Willis, uscii a cena con gli amici e non resistetti alla tentazione di parlare di quello che mi mulinava ancora in testa. «Sapete che il cervello delle persone di mezz’età come noi è migliore, migliore dico, di quanto non fosse a vent’anni?» dissi ai miei coetanei fra un piatto di pasta e un bicchiere di vino. La reazione fu immediata.
«Figurati» disse uno dei commensali, Bill, un ingegnere civile di cinquantadue anni che possiede una società di consulenza. «Non è assolutamente vero. Il mio cervello non è buono come a vent’anni, non si avvicina neanche alle prestazioni di allora. È meno veloce: faccio maggior fatica a risolvere i problemi più difficili. Se provassi a iscrivermi alla facoltà di ingegneria della Stanford oggi, fallirei. fallirei!» Bill non si sbaglia. Il cervello in certa misura rallenta. Ci lasciamo più facilmente distrarre e, a volte, troviamo più faticoso affrontare nuovi spinosi problemi, per non parlare dell’incapacità di ricordare perché siamo scesi in cantina.

Il mio amico non deve più andare all’università, ma dice che anche nel lavoro quotidiano, se confronta il cervello di adesso con quello di quando era giovane, vede nel primo solo carenze. Tuttavia, non si accorge che il suo cervello di oggi ha molte più doti di quante lui non gliene riconosca. Se si guardano i dati della ricerca della Willis, i punteggi registrati nei quattro settori cruciali della logica, del vocabolario, della memoria verbale e dell’abilità spaziale risultano, nella mezz’età, superiori rispetto all’epoca in cui il medesimo campione aveva fra i venti e i trent’anni. (Vi sono anche degli interessanti divari di genere. In media negli uomini il massimo delle prestazioni si registra un po’ prima che nelle donne, fra i cinquantacinque e i sessant’anni. Essi tendono inoltre a conservare la velocità di elaborazione più a lungo e a essere più bravi nei test spaziali. Le donne di solito sono migliori nella memoria verbale e nel vocabolario e il loro punteggio in questi settori continua ad aumentare anche fra i sessanta e i settant’anni.)

---- Equiparare la vecchiaia alla perdita
Come mai, allora, non ci rendiamo conto dei vantaggi?
Perché, come molte altre persone di mezz’età, Bill è fermamente convinto che, dal punto di vista dell’efficienza cerebrale, non si possa negare di essere meno brillanti di quanto si fosse da giovani? A condizionarci è in parte il continuo tamtam pubblicitario della nostra cultura, ben decisa a dipingere la vecchiaia solo come una sequela di perdite, e in parte l’eredità di una scienza che per tanti anni ha studiato il processo di invecchiamento solo attraverso gli anziani ricoverati nelle case di riposo, i quali non sono certo i più fulgidi esempi di ragionamento induttivo. I ricercatori saltavano a piè pari la mezz’età.

Ma non ci aiuta nemmeno il cervello stesso, che è strutturato in maniera da rilevare le differenze, cogliere le anomalie, individuare la smagliatura nel tappeto o la serpe nell’erba. Così ci accorgiamo anche dei cambiamenti che vi insorgono. Tuttavia, quando notiamo le differenze, in genere le notiamo rispetto a pochi anni prima, non a vent’anni prima. E quando osserviamo leggeri cambiamenti, che certo è possibile si siano verificati, ci convinciamo di avere seguito una parabola discendente fin dall’epoca dell’università.
In altre parole, scorgiamo i minimi difetti del tappeto, ma non ci rendiamo conto del processo più sottile e graduale che nel corso degli anni ha trasformato a poco a poco il nostro cervello in una forza formidabile ed efficientissima, in una stanza ristrutturata.

Nell’indagine condotta a Seattle, i soggetti fra i cinquantatré e i sessant’anni, pur essendo sempre a un livello superiore rispetto a quello in cui si trovavano fra i venti e i trent’anni, accusavano un «modesto declino» in confronto al precedente periodo di sette anni. Tale calo di prestazione in determinate abilità mentali rispetto agli anni immediatamente precedenti è, per quanto minimo, quello che osserviamo. Ma è un’illusione.
«La persona di mezz’età ha del suo funzionamento intellettivo una percezione peggiore di quanto i dati longitudinali non facciano supporre sia la realtà» dice la Willis. «È più facile fare ... confronti con periodi della vita più recenti che con periodi lontani. In genere si ha una percezione più vivida e precisa di come si era sette anni prima che di come si era vent’anni prima.»
In breve, con tutta probabilità Bill pensava che il suo cervello fosse un po’ meno brillante, sotto certi sottili profili, a cinquantadue anni che a quarantacinque (non a venticinque) quando affermava di avere pessime prestazioni in confronto al passato. In altre parole, come la maggior parte dei suoi coetanei egli è acutamente consapevole dei difetti e del tutto inconsapevole della complessiva, elevata efficienza del suo cervello di mezz’età.
«Il suo amico Bill non si rende conto di quanto è efficiente perché è un pesce nell’acqua e non capisce quanto sia bella l’acqua» dice Neil Charness, psicologo della Florida State University ed esperto in questo settore di ricerca.

«Sempre più intelligenti» di generazione in generazione
Naturalmente Bill non è l’unico pesce in quella particolare massa d’acqua.
«Per un pezzo abbiamo creduto che il picco si raggiungesse nella prima giovinezza» dice la Willis. «Eravamo convinti che il vigore fisico e quello cognitivo andassero di pari passo e, in parte per questo, è alla prima giovinezza che destiniamo le nostre risorse educative, sicuri che in quella fase se ne possa trarre il massimo profitto. Ma ricordiamoci che questa situazione è nuova. Non c’era mai stato, prima, un periodo di mezz’età così lungo e dall’attività così intensa. E stiamo scoprendo in continuazione nuove cose riguardo a questa inedita fase della vita.»
In effetti, per studiare il fenomeno alcune delle ultime ricerche hanno cominciato a scomporre la vecchiaia in segmenti distinti. Non si tratta più solo della contrapposizione giovane/vecchio. Ora si esaminano con maggiore attenzione gli anni di mezzo e si scompongono anche quelli in segmenti più piccoli per comparare il cervello di una persona con quello dei decenni precedenti. Nel corso di un’indagine, per esempio, Elizabeth Zelinski, dell’università della California del Sud, ha confrontato dei settantaquattrenni di oggi con dei settantaquattrenni di sedici anni prima, e ha scoperto che il gruppo odierno conseguiva risultati assai migliori in un’intera gamma di test mentali. Anzi, i settantaquattrenni di oggi registravano punteggi più simili a quelli di soggetti che nei test di sedici anni prima avevano cinquantanove anni. Sono scoperte cche hanno «implicazioni molto interessanti per il futuro, specie in termini di occupazione» dice la Zelinski.

---- Un altro dato confortante è che risulta nel complesso diminuito un particolare tipo di deterioramento cognitivo, ossia la leggera tendenza a dimenticare che affligge il cervello in via di invecchiamento. Da una recente ricerca dell’università del Michigan è emerso che la diffusione di questa forma minore di deterioramento mentale negli individui di settanta o più anni era scesa di 3,5 punti percentuali fra il 1993 e il 2002, passando dal 12,2 all’8,7 per cento.
Tuttavia tendiamo a preoccuparci. Molti di noi hanno visto i propri genitori che, invece di morire sul colpo magari per una caduta, subivano per anni gli effetti debilitanti di patologie croniche come le cardiopatie o il morbo di Alzheimer.

«Molti di noi hanno dovuto prendersi diretta cura dei loro genitori, sanno di condividere i loro geni, hanno visto come si sono ridotti e sono alquanto preoccupati» osserva la Willis.
Quando ho parlato con lei, stava usando l’anno sabbatico per cercare di imparare un nuovo metodo di analisi dei dati sulla durata della vita, che comportava una serie incredibile di complesse equazioni. Ha ammesso prontamente che il suo cervello di mezz’età le procura discrete frustrazioni. «Vede? Ho cinquantanove anni e sono costretta a scrivermi l’elenco delle cose che devo ricordare» mi ha detto. «Ho annotato il colloquio con lei e l’impegno successivo, poi sto cercando di apprendere questa nuova metodologia e forse mi ci vorrà un po’ più di quanto mi ci volesse un tempo, il che è frustrante.»

Si affretta però ad aggiungere: «Sono molto fiera di stare cominciando a capire il nuovo metodo e non dimentichiamoci che, quando imparano cose nuove, gli studenti in fondo non fanno altro che studiare. Hanno un intero semestre da dedicare all’impresa. Io invece sto cercando di imparare il nuovo metodo e nel contempo faccio mille altre cose. Rispondo a una quantità esorbitante di e-mail, acquisto via Internet e intanto scrivo e parlo con lei.
«Alla fine sono costretta a dire a me stessa: “Dai, concediti una sosta”. È indubbio che il cervello migliora nella mezz’età».
La Willis ha ampliato la ricerca e ora sta scavando ancora più a fondo nelle pieghe del cervello di mezz’età. Usando nuove tecniche di imaging, indaga su quali cambiamenti strutturali avvengano nel volume cerebrale in quel periodo della vita e se tali cambiamenti influiscano sulle capacità cognitive durante l’incipiente vecchiaia. Si propone anche di scoprire che effetti le malattie croniche della mezz’età, come il diabete e le cardiopatie, hanno sulla capacità di una persona di mantenere un alto livello di funzione cerebrale nell’età successiva. Nel complesso, è quasi sicura di scoprire che il cervello dei suoi soggetti adulti non sia statico.
«Se la fortuna ci assiste, il cervello continua a evolvere e migliorare» dice.

Se è così, in che modo evolve? Come può un cervello di cinquantadue anni vagare per il soggiorno tentando di ricordarsi che cosa sta cercando e nel contempo avere capacità intellettive superiori a quelle che aveva all’università?
Possiamo analizzare più in dettaglio questa contraddizione intrinseca? E ove lo facessimo, in che modo definiremmo i lati positivi del cervello di mezz’età? Conoscenza? Competenza? Esperienza? Oppure è piuttosto una questione di intuizione o, più semplicemente, di istinto di sopravvivenza? Particolare più importante: a prescindere dai test strettamente cognitivi, è possibile misurare tutto ciò nel mondo reale?
Qualche anno fa la risposta sarebbe stata negativa. Ma anche questo è cambiato. Gli odierni ricercatori hanno tentato di definire le particolari caratteristiche della mezz’età, il je-ne-sais-quoi della maturità, e le hanno rilevate sia nel mondo reale, seguendo individui concreti per l’intero arco della vita, sia, in misura crescente, utilizzando nuove tecniche di scansione che esplorano in profondità la complessa struttura del cervello.
---- Uno degli esperti che hanno studiato con maggiore attenzione il cervello maturo è Art Kramer, psicologo e neuro scienziato dell’università dell’Illinois. Due anni fa, Kramer decise di vedere se poteva scoprire come funzionasse in concreto, nella vita quotidiana, un cervello di mezz’età. In particolare, si propose con i suoi colleghi di verificare quale prestazione avrebbe fornito un cervello di mezz’età in un lavoro che richiedesse grande rapidità di decisione. Così pensò di scegliere come campione i controllori di volo. Negli Stati Uniti i controllori del traffico aereo sono costretti per legge ad andare in pensione a cinquantacinque anni. In molti altri paesi la categoria può continuare a lavorare molto più a lungo senza che per questo si verifichino più incidenti di quelli registrati in America.

Chi ha ragione? Imponendo un limite di età (indipendentemente dalla loro salute e dalla loro capacità) ai tecnici dal funzionamento del cui cervello dipende la sicurezza della popolazione, gli Stati Uniti si tutelano forse più delle altre nazioni? O, per dirla in termini opposti, costringendo certe persone a ritirarsi dal lavoro a cinquantacinque anni, l’America non rischia di perdere i suoi cervelli migliori, quei cervelli maturi che avrebbero potuto garantirle ancora più sicurezza?

Per verificare come stessero le cose, Kramer andò in Canada, dove i controllori di volo continuano a lavorare fino a sessantacinque anni. Lì, sottopose per sette ore un gruppo di controllori giovani e di altri più anziani a una batteria di test cognitivi, quindi fece fare loro per un lungo lasso di tempo delle simulazioni del quotidiano lavoro di controllo aereo.
«Nella vita reale i controllori lavorano al computer e nella simulazione abbiamo usato dei computer perché compissero una serie di operazioni molto simili a quelle della loro professione» dice Kramer. «A volte erano indaffaratissimi, perché parlavano con i piloti e nel contempo guardavano lo schermo e avevano aerei che atterravano a velocità diverse. Abbiamo anche fatto loro ordinare in sequenza le linee di volo. Insomma dovevano occuparsi di un sacco di cose.»

Che cosa ha scoperto Kramer assieme ai suoi colleghi? Che i controllori più anziani fornivano la stessa prestazione dei più giovani. «È risultato chiaro che nei compiti di simulazione la loro prestazione non era inferiore a quella del gruppo più giovane. Non c’era differenza di livello.» Nei test cognitivi si sono riscontrate differenze, ma anche quelle interessanti. In settori come la velocità di elaborazione i giovani erano più bravi, ma in due importanti aree organizzative, l’orientamento visivo (la capacità di guardare un aereo in due dimensioni sul monitor e immaginarlo in tre dimensioni nel cielo) e la gestione dell’ambiguità (affrontare efficacemente informazioni contraddittorie, un blocco totale informatico o anche l’eventualità di uno sbaglio del computer), gli anziani, ancora una volta, davano risultati altrettanto buoni.

Studi condotti sui piloti hanno dato lo stesso risultato. Nella ricerca effettuata da Joy L. Taylor, dello Stanford/va Aging Clinical Research Center, e pubblicata sulla rivista «Neurology», 118 piloti di età compresa fra i quaranta e i sessantanove anni erano messi alla prova in un periodo di tre anni con simulatori di volo di un monomotore sopra un terreno pianeggiante vicino alle montagne. Taylor ha scoperto che i piloti più anziani rendevano meno la prima volta che usavano i simulatori, i quali verificavano la loro capacità nel comunicare con i controllori di volo, evitare il traffico, tenere sotto controllo la strumentazione di bordo e atterrare; ma quando i test venivano ripetuti, i piloti anziani risultavano più bravi dei giovani in quello che era il fulcro di tutta l’esercitazione: evitare il traffico e le collisioni. In altre parole, all’inizio i più attempati impiegavano più tempo a familiarizzarsi con il nuovo test, ma superavano in abilità i giovani quando si trattava di fare la cosa più importante: mantenere l’apparecchio in rotta e farlo atterrare.
«Il fatto è che avere molti anni di esperienza alle spalle rappresenta un vantaggio, qualcosa di assolutamente prezioso» dice Kramer. «E se conserva le necessarie capacità, una persona di una certa età è forse in grado di fornire un’ottima prestazione in professioni in cui un tempo pensavamo fosse fuori gioco.»

Copyright © Barbara Strauch, 2010
© 2011 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
The Secret Life of the Grown-up Brain
I edizione gennaio 2011
Pagine 28-38

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