Dopo i minimi del 2016, il prezzo del petrolio nel 2017 è tornato a crescere. Cosa accadrà nel 2017 e in che modo l’economia globale guadagnerà dalla risalita dei prezzi del greggio?

L’annus horribilis dell’oro nero sembra essere stato definitivamente messo in archivio. Dopo che nel 2016 il prezzo del greggio ha toccato il suo minimo dal 2004. In media, nel 2016 un barile di Brent costava 43,67 dollari, per una riduzione del 16% circa rispetto alla media dell’anno precedente. A inizio anno, nelle prime settimane di gennaio, poi, si è toccato il picco negativo: il prezzo è sceso al di sotto della soglia dei 30 dollari al barile, cosa che non accadeva da 12 anni.

L’inversione di tendenza si è registrata già nelle prime settimane del 2017: le quotazioni si sono riportate intorno a valori compresi tra i 50 e i 55 dollari al barile. La risalita, auspicata da economisti e analisti di grandi banche d’affari internazionali, è frutto dell’accordo concluso lo scorso novembre, che prevede un immediato ridimensionamento della produzione da parte dell’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) e di altri 11 produttori, con l’obiettivo di diminuire la produzione giornaliera nei primi mesi dell’anno di circa 1,8 milioni di barili al giorno. Gli effetti sulle quotazioni sono stati immediati: il 29 novembre 2016, il giorno prima che l’accordo tra i produttori fosse siglato, il Brent veniva scambiato a 45 dollari al barile. A esattamente due mesi di distanza, il 30 gennaio 2017, il prezzo di scambio era già salito a 53,17 dollari al barile.

Cosa accadrà nei prossimi 12 mesi? Economisti e analisti sembrano tutti concordi nell’affermare che il trend rialzista sia destinato a rimanere sostanzialmente stabile anche per i mesi a venire. Bank of America-Merrill Lynch, per esempio, stima che il prezzo medio per il 2017 del Brent raggiungerà i 61 dollari al barile, con la possibilità di toccare un massimo di 70 dollari verso la seconda metà dell'anno.

Ma perché è da considerarsi positivo il rialzo del prezzo del petrolio? Il prezzo maggiore dell’oro nero ha due effetti potenzialmente opposti. Da un lato, infatti, per i consumatori di energia nel mondo, un incremento delle quotazioni incide con una riduzione del potere d’acquisto, comportando un aumento del costo della benzina (nonostante le pesanti accise che in Italia mitigano i benefici di eventuali riduzioni di prezzo), e una risalita dei costi di produzione per le imprese. Dall’altro, invece, l’aumento del prezzo dell’oro nero si riflette direttamente sugli equilibri dell’economia mondiale, scongiurando il rischio di una nuova recessione e influenzando abbastanza significativamente l’andamento del tasso di inflazione. Fenomeno che, in effetti si sta già verificando: il tasso di inflazione dell’Eurozona è aumentato sull’onda degli effetti dei prezzi degli energetici (vedi domanda 2).

Inoltre, il trend rialzista incide anche direttamente sui ricavi delle aziende che in questo settore lavorano e sugli introiti provenienti dalle esportazioni dei paesi produttori. Senza dimenticare che le società petrolifere spesso rappresentano una componente non trascurabile all’interno degli indici azionari dei vari paesi. Ecco perché, spiegano gli strategist, l’aumento del prezzo del petrolio, unitamente al rafforzamento delle prospettive di crescita economica, al rialzo del tasso di inflazione e alla politica di aumento dei tassi di interesse, potrebbe portare a performance migliori nei mercati azionari. In particolare, saranno i settori ciclici a trarne i benefici maggiori: come gli industriali, le infrastrutture, le materie prime e l’energia (vedi domanda 7).

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