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Long life 2/Gli economisti. Il rischio di vivere di più OF OSSERVATORIO FINANZIARIO

SOMMARIO

Gli americani lo chiamano Longevity Risk. Tradotto: rischio longevità. Perché vivere più a lungo, e meglio, non è sempre una cosa positiva. Soprattutto non per gli economisti, che già intravedono pensioni e sanità pubblica sull’orlo del baratro. Insieme ai bilanci degli Stati nazionali. E alcuni già ipotizzano che anche la produttività aziendale non si salverà

Long life 2/Gli economisti. Il rischio di vivere di più

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In America hanno persino coniato un termine: Longevity Risk. Cioè rischio longevità. Vale a dire il rischio che la durata della vita di individui o di intere popolazioni supererà le aspettative. In altre parole: vivere più a lungo, e meglio, non sempre è una cosa positiva. O, perlomeno, non lo è per gli economisti.

Pensioni
Il problema principale riguarda le pensioni. Come ha fatto notare John Shoven, professore di economia della Stanford University, “la gente non può pensare di finanziare 20-25-anni di pensionamento con 35 anni di carriera. Non in Grecia [o] negli Stati Uniti”. Il fatto che le persone vivano più a lungo, infatti, non vuol dire che lavorino più a lungo. Ma solo che usufruiranno per più anni della pensione fornita dallo Stato. Con gravi implicazioni dal punto di vista economico. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, presieduto da Christine Lagarde, che ad aprile 2012 ha pubblicato il Global Financial Stability Report, se l’aspettativa di vita media crescesse tre anni in più di quanto atteso ora, entro il 2050, i già elevati costi necessari a sostenere i piani pensionistici e di assistenza sanitaria degli Stati Uniti, aumenterebbero di un ulteriore 50%. Mentre, stando alle stime fornite delle Nazioni Unite le spese aggregate passerebbero dal 5,3 all'11,1% del Pil delle economie avanzate e dal 2,3 al 5,9% del Pil di quelle emergenti.

A pesare, sul Pil delle nazioni, saranno soprattutto i piani di assicurazione medica e assistenza sanitaria. In un rapporto del 2012 redatto dall’americano National Institute on Aging (Aging and the Macroeconomy: Long-Term Implications of an Older Population), infatti, si legge che l’allungamento della vita e la contestuale riduzione dei tassi di natalità, porterà nel prossimo futuro a un incremento della spesa sanitaria nazionale. I tre programmi assistenziali attivi negli Stati Uniti per gli over 65 (Medicare, Medicaid e Social Security), infatti, tra qualche anno si troveranno ad avere un boom di nuovi beneficiari. Mentre il numero dei lavoratori che contribuiscono a sostenerli sarà in costante calo. Questa mutata tendenza demografica, combinata con un’impennata dei costi di assistenza, provocherà un consistente aumento delle spese pubbliche già oggi elevate, e pari a circa il 40%di tutta la spesa federale e al 10% del prodotto interno lordo della nazione.

In Italia
Anche dall’Italia arrivano voci preoccupate. Soprattutto perché l’ipotesi di un incremento della spesa media delle pensioni sembra essere tutt’altro che futuribile. Anzi, è già in atto ora. Nel 1970, infatti, le pensioni rappresentavano in totale l'8% del Prodotto interno lordo. Oggi, invece, costituiscono quasi il 17 % della spesa complessiva. A queste voci di costo, poi, vanno aggiunte le spese sanitarie, in continuo aumento per via del progressivo invecchiamento della popolazione. “Aumentano ovunque nelle economie sviluppate, più rapidamente del prodotto, le spese sanitarie”, ha dichiarato, infatti, Antonio Fazio, ex Governatore della Banca d’Italia, nel suo intervento in occasione del Congresso internazionale nel cinquantesimo anniversario della Mater et magistra a gennaio 2011, “ci troviamo di fronte a una crisi incipiente della sanità pubblica, grande conquista sociale del XX secolo in molti paesi europei”. Oggi, infatti, per la sanità è prevista una spesa pari al 10% del Pil. Che, sommata alle pensioni, implica un costo complessivo che sfiora il 27% del Prodotto interno lordo. Vale a dire 10 punti percentuali in più di circa quarant’anni fa.

---- La soluzione, su cui tutti sembrano essere d’accordo, è una sola: aumentare l’età pensionabile. O meglio, aumentare la soglia minima in modo da adattarla alle mutate esigenze demografiche. L’OECD, Organisation For Economic Co-Operation And Development (o OCSE, all’italiana), nell’edizione inaugurale del suo Pensions Outlook, per esempio, sostiene la necessità di alzare l'età pensionabile ed espandere la copertura pensionistica essenziale. “Abbattere le barriere che impediscono gli anziani di lavorare oltre l'età pensionabile tradizionale sarà una necessità per garantire che i nostri figli e nipoti possono godere di una pensione adeguata al termine della loro vita lavorativa”, spiega, infatti, Angel Gurria, segretario generale dell'OCSE. “Se non si sposta oltre i 60 o anche 65 anni di età il limite dell’età lavorativa – i progressi nello stato medio della salute degli anziani permetterebbe di farlo senza difficoltà e in molti casi con piena soddisfazione degli interessati – il rapporto tra attivi e pensionati inattivi, è destinato a salire notevolmente”, ha continuato Fazio, “entreranno in crisi allora i sistemi pubblici di previdenza in gran parte basati sul sistema a ripartizione; in connessione si avranno pesanti ricadute sulle finanze pubbliche. La risposta, peraltro parziale, ai problemi della sanità e previdenza pubbliche è un maggior ricorso, con l’aiuto anche di adeguati trattamenti fiscali, all’assicurazione privata”.

Sostenibilità Fiscale
Anche la sostenibilità fiscale (cioè il rapporto debito/Pil) potrebbe incrementare sull’onda dell’aumento delle aspettative di vita e del benessere individuale medio. L’incremento esponenziale delle spese sanitarie e di quelle previdenziali, infatti, diretta conseguenza dell’allungamento della vita, mette a rischio la solvibilità di istituti finanziari e fondi pensione. “In molti paesi, il settore privato non sembra avere sufficienti risorse finanziarie per far fronte ai costi relativi all'invecchiamento, per non parlare del rischio longevità”, si legge nel rapporto redatto dal FMI che spiega, “non è irragionevole supporre [dunque] che l’onere finanziario di un aumento inatteso della longevità alla fine ricadrà sul settore pubblico”. In poche parole: se le attuali tendenze demografiche non cambieranno, gli istituti di credito e i fondi pensione di molti Paesi, in piena crisi di solvibilità, potrebbero sbilanciare il rapporto tra debiti pubblici e Pil verso il collasso. “Nella misura in cui i governi non stanno riconoscendo il rischio di longevità (e pochi in realtà lo fanno), i bilanci fiscali diventano più vulnerabili”, scrive il Fmi. Ecco perché “serve una combinazione di aumento dell'età pensionabile di pari passo con l'aumento dell'aspettativa di vita, più alti contributi pensionistici e una riduzione dei benefit da pagare”. Mentre i governi devono attivarsi per condividere i rischi con il settore privato e gli individui.

L’impatto sulla forza lavoro
La teoria sull’allungamento della vita, e il suo corollario che postula un generale invecchiamento della popolazione globale, influenzerà anche il mondo del lavoro. Anzi, le caratteristiche demografiche della forza lavoro.
Randstad, la multinazionale olandese che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane, per esempio, in un recente studio ha affermato che l’Europa nel 2050 avrà un deficit stimato di circa 35 milioni di lavoratori. L'età media della forza lavoro continuerà a crescere in quasi tutti i mercati, mentre i lavoratori più giovani saranno sempre meno. Una vasta gamma di settori saranno colpiti, dunque, dalla carenza di forza lavoro. In particolare, tutti quei settori, come quello sanitario, la vendita al dettaglio, il tempo libero e il turismo, che preferiscono puntare proprio sui giovani. Con conseguenze che andranno a influire sul tasso di produttività delle aziende in questione. Potenzialmente in via di diminuzione.
“In generale, i fenomeni di fondo che stanno investendo le nostre economie modificheranno profondamente anche le caratteristiche professionali richieste ai lavoratori del XXI secolo”, osserva Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia in un articolo dal titolo Il capitale umano, pubblicato sulla rivista Il Mulino del 21 ottobre 2011. “Già si osserva in molti Paesi una polarizzazione delle professioni”, continua, “una crescita più pronunciata delle mansioni manuali e delle professioni a più alta qualificazione a scapito degli impieghi intermedi. La rapidità e l’imprevedibilità dei cambiamenti impongono di accrescere la velocità di risposta dell’economia, un problema che riguarda l’intero Paese, le sue istituzioni e il suo sistema produttivo, non solo il capitale umano e l’adattabilità della sua forza lavoro. Si è fortemente ridotta la nostra capacità di prefigurare quali saranno i nuovi beni e servizi richiesti di qui a pochi anni tanto è rapido il processo di innovazione tecnologica. Altrettanto difficile è prevedere le nuove professionalità necessarie a produrli”.

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